C’ERAVAMO TANTO A(r)MATI!

C’ERAVAMO TANTO

A(r)MATI!

La Storia ha cicli quasi fissi che, come tappe prevedibili, ritornano. Il sapiente Qoelet ha riassunto questa realtà in una battuta, folgorante e insieme veritiera, dicendo: “Quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole” (1,9).

È di queste settimane, infatti, il grande e doloroso dramma che si snoda sotto i nostri occhi, stupefatti e attoniti, del massacro in corso tra due Paesi nati dallo stesso ceppo religioso e che si considerano “fratelli”. In men che non si dica, sono passati dal “C’eravamo tanto amati” al “Ci siamo tanto armati”.

A questa possibilità, il libro biblico Genesi ci aveva già preparato raccontando della vicenda dei due fratelli Caino e Abele dove il primo, da familiare è diventato nemico e addirittura assassino del secondo. Stessa situazione quella vissuta da Giuseppe, il figlio minore di Giacobbe, che ha sperimentato sulla propria pelle cosa significhi essere venduto dai fratelli e finire schiavo in terra straniera. La Storia, dunque, si ripete ed evidenzia giravolte che lasciano spesso stupefatti per la disinvoltura con cui avvengono.

Come ieri ad altri, anche oggi a noi si presenta l’ambiguo dilemma che chiede una presa di posizione personale. Il Papa, in nome del Vangelo, continua a richiamare non una generica pace (chi non la vuole?!), ma la strada da percorrere (fermare le armi, smetterla di armarci, di spendere in armamenti, scegliere davvero la via del negoziato, eccetera) e la via “culturale” (e di fede!) da solcare: quella della fraternità.

Ma la sua resta una voce nel deserto, fatto oggetto di scherno e di indifferenza da chi crede di avere in mano le sorti del mondo. Ed è l’unico, in questo desolato panorama politico, a volere davvero la pace. Non è bastato il comando di Dio: “Nessuno tocchi Caino”, non è bastato l’invito di Gesù: “Rimetti la spada nel fodero” a impedirci di ritenere che la guerra si combatta con la guerra e che la pace si faccia con le armi! E guardiamo la guerra come una partita di calcio (“vinceremo!”) e una partita di calcio come se fosse una guerra!

Le stesse manifestazioni pacifiste (certamente importanti e necessarie) a volte sono cariche di slogan violenti e carichi di odio, finendo per rinnegare quanto si vorrebbe proporre: se non si riparte dall’essere “Fratelli tutti”, si finirà inesorabilmente a fare della pace solo una parentesi tra due guerre. Per questo, come proposto da Avvenire e dai responsabili della marcia Perugia Assisi, si deve fare di più: “metterci in cammino dentro le ferite” (come un tempo monsignor Tonino Bello a Sarajevo).

È lì che si dovrebbe marciare, è lì che una miriade di corpi «disarmati eppure resistenti» potrebbe dire una parola nuova in un’Europa che, mentre invoca con voce afona la pace, la rinnega con la guerra. Perché non ci può essere trasformazione della realtà senza “entrare nelle ferite”, non ci può essere una nuova civiltà europea, una fede europea, solo nelle ragioni pratiche della guerra e perfino della “pace”.

Tutto è perduto con la guerra, perché nessuna vita umana può essere sacrificata sull’altare dell’ideologia: in una guerra tutti sono sconfitti e nessuno ne esce vincitore quando milioni di uomini perdono la casa, il lavoro, gli affetti, la vita. Ripetiamo gli stessi errori, non impariamo nulla dalla storia, non seguiamo la voce e la Parola di chi ha vinto morendo, di chi ha salvato il mondo nel dono di sé, di chi è risorto coi segni indelebili della passione sulle mani, di chi ci ha vissuto il comandamento nuovo dell’amore reciproco, il solo che può trasformare un nemico in amico. Ma attenzione, non crediamo, noi che viviamo “in pace”, di essere immuni da questi pericoli: resta sempre il rischio di passare velocemente, quasi senza accorgersi, da amici a nemici, da famigliari a estranei, da calorosi compagni a freddi indifferenti. Per poi svegliarci un giorno in guerra e con falso stupore accorgerci che “C’eravamo tanto armati”.

Pertanto, l’augurio che osiamo rivolgere a ciascuno, è che questi giorni del tempo pasquale, gioiosi e insieme drammatici, aiutino noi credenti a rifare di nuovo la scelta dell’amore di Gesù nei confronti dei fratelli, evitando che il tutto si risolva in una nostalgica quanto inutile rievocazione rituale di un evento del passato che non lascia traccia significativa nella nostra vita e che non dice nulla agli uomini di oggi. Basterebbe però poco: sarebbe sufficiente togliere una “R”…

Anche per questo preghiamo Maria in questo mese di maggio.  dP

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