Due eredità di Papa Francesco da elaborare e far fruttificare

Mentre stiamo già apprezzando e amando Papa Leone, è necessario rendere onore agli impulsi buoni ereditati dal ministero di Francesco, guardando la realtà alla quale rimandano e che interpella la Chiesa.
Diceva di Papa Francesco il suo amico Rabbino di Buenos Ares: “Lui ha aperto porte, noi dobbiamo tenerle aperte”. Quali porte? Mi limito ad evocarne due che in questo cambiamento d’epoca impongono una cultura cristiana radicalmente nuova, in cui è destinata a fiorire la nuova evangelizzazione:

La Chiesa non si fa solo con chi “viene in chiesa”
Quando la Chiesa si concepisce solo a partire da quelli che vengono a messa, perde slancio, smarrisce la missione e diventa autoreferenziale.
Papa Francesco si è speso in questa direzione in modo diretto, immaginoso, gestuale, nelle sue parole e nei suoi atti, perché qui risplende la novità della rivelazione di Gesù.

Gesù, infatti, si era avvicinato ad interlocutori non “religiosi” e non fedeli alle norme della Legge, per affermare che il Regno di Dio è per tutti e che esiste una “fede che salva”: la Samaritana, la Cananea, Zaccheo, il Centurione, il Cieco, il Ladro, il Lebbroso e molti altri e altre.
Figure accomunate dalla drammatica povertà di un’esistenza ferita, metafore della umana estraneità alla perfezione morale. Perone che escono dalla folla anonima anche solo per un tocco, uno sguardo, una richiesta a Gesù: in loro Lui riconosce la sua stessa fede incondizionata nell’amore del Padre.

È il volto ecclesiale della misericordia di Dio: il Suo Regno è più grande!
Impareremo ad abitare istituzionalmente e allegramente questa Chiesa “allargata”?

Riacclimatarsi con la missione – aprire il regno di Dio, prima che ampliare l’istituzione – farà la differenza: si tratta di ricreare legami e rapporti coi “credenti non presenti” (credenti che hanno come riferimento Gesù Cristo, anche se non praticanti), che tra l’altro, in Italia, costituiscono più del 70% della popolazione.

La fraternità universale: la relazione come identità
Il mondo attuale va, in ordine sparso, verso “la guerra mondiale a pezzetti”. Questo effetto globale della violenza, sta contaminando anche i legami individuali: il nostro ego, l’individualismo, non ha più “limiti”, si fa ciò che si sente senza filtrarlo attraverso i nostri “valori”.

Prima che i “pezzetti” della violenza nel mondo si saldino fra loro, è urgente lanciare una visione “profetica” della loro drammatica stupidità, per una nuova umanità.

L’azzardo del seme evangelico, oggi, è la mossa più razionale. Si tratta di ripartire dalla verità dell’essere umano come “relazione”, a immagine di Dio che è in sé relazione d’Amore. Se saltiamo questa dimensione relazionale, se non ripartiamo dall’amore reciproco come identità più vera di noi stessi, ci perdiamo inesorabilmente, ci autodistruggiamo.

La “fraternità”, come orizzonte della convivenza civile, è la categoria del linguaggio cristiano che contrasta il nichilismo dell’auto-realizzazione e che Francesco ci ha richiamato continuamente.

Ma non basta vivere questo solo come richiamo spirituale: occorre tradurlo in una cultura politica capace di spalancare nuovi orizzonti di umanità e di libertà.

Occorre riscoprire la forza e la verità dei “paradossi” evangelici: le istruzioni di Gesù sull’amore ai nemici che ci rende umani, sulla spesa della propria vita per guadagnarla, sulla capacità del padre di emozionarsi per il figlio ritrovato, sulla festa del cielo per una conversione umanamente impensabile. In queste figure limite della radicalità evangelica, si nasconde un’antropologia ancora inesplorata che dobbiamo “inventare”, portare alla luce e mettere in rete.

Saremo capaci di trarre dalla fede evangelica la cultura di un nuovo umanesimo civile in unione con le donne e gli uomini di “buona volontà”, laiche e religiose, che ancora esistono?

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