Terrasanta, luogo dell’incontro

La testimonianza di Fabio Pio Mastroberardino che negli ultimi anni si è recato più volte in Terra Santa, sia in Israele che in Cisgiordania

Qualche tempo fa mi è stata chiesta la disponibilità a scrivere un articolo sulle mie recenti esperienze in Terra Santa. Devo ammettere che, data la tragedia che si sta vivendo, mi scopro molto combattuto su cosa scrivere. Sento una profonda lacerazione interiore: ogni moto di vicinanza verso uno dei due popoli si accompagna istantaneamente alla consapevolezza dei drammi vissuti dall’altro, e l’istinto, credo “naturale”, a scegliere una parte viene messo in continua discussione.

Ho scelto quindi di descrivere brevemente la mia esperienza, lasciando solo al termine qualche riflessione — maturata proprio durante quei pellegrinaggi e ogni giorno soggetta a revisioni, davanti a ogni tg— riguardo alla tragedia di questi ultimi due anni.
Sono stato in Terra Santa tre volte: la prima esperienza risale all’estate del 2022, per circa venti giorni. Qualche giorno in meno nell’estate 2023, e infine una settimana quest’anno, tra il Santo Natale e Capodanno. Quindi due esperienze antecedenti al 7 ottobre 2023 (la seconda proprio a ridosso), e una terza in uno dei momenti più bui di questa guerra.

La grande fortuna è stata avere l’occasione di svolgere questi pellegrinaggi guidato da Don Paolo Zago, parroco di Gorgonzola e instancabile guida della Terra Santa. Questo mi ha permesso di vivere l’esperienza in modo particolarmente intenso: oltre ai pellegrinaggi e alle riflessioni sulla Parola svolte nei luoghi del Vangelo (Cafarnao, Nazareth, Gerusalemme, Betlemme, Magdala, sul Giordano e tanti altri), ho avuto la possibilità di trascorrere molti giorni (la maggior parte) in Cisgiordania, nei pressi di Betlemme, a Hortaz nel Convento Hortus Conclusus, dove ho fatto volontariato per ricostruire i muri di confine delle proprietà del convento. Un luogo nel quale ho trovato, paradossalmente dato il contesto, casa e pace. Vera pace.

Non mi dilungo sulle esperienze nei luoghi di fede: penso che molti di voi abbiano vissuto in prima persona queste esperienze, certamente intime; e soprattutto ogni parola la sento riduttiva per i doni ricevuti nello stare lì. Posso solo accennare che leggere la chiamata degli Apostoli mentre si è sulle sponde del lago di Tiberiade, partecipare alla Santa Messa proprio mentre sta sorgendo il sole nel Deserto della Giudea, attraversare questo deserto vedendo gli eremi nei quali è iniziato il monachesimo, avere la fortuna di partecipare alla Santa Messa nell’edicola del Santo Sepolcro (potrei continuare a lungo), sono tutte esperienze che hanno definitivamente cambiato la mia vita, il mio rapporto con la fede e con Gesù. Un percorso di conversione che la Terra Santa ha prima risvegliato, dopo anni di torpore, e che oggi aiuta a mantenere sempre vivo. Il Vangelo è vita vissuta, è Carne, e se la distanza del “tempo” da Gesù non può essere abbattuta, andare in quei luoghi azzera almeno la distanza dello “spazio”, e poter vivere queste esperienze è stata una immensa fortuna.

Cosa posso dire, invece, di tutto il resto?
Di certo posso dire che ho percepito una netta differenza tra la prima esperienza del 2022 e quella del 2023, terminata poco più di un mese prima degli attacchi del 7 ottobre. Nel 2022 non ho avvertito alcuna “tensione”. Nel 2023, mentre ricostruivamo i muretti, abbiamo trovato un ragazzo, un pastore palestinese, che era stato poco prima bastonato da coloni israeliani. In seguito, hanno raggiunto anche noi per cacciarci, affermando che quelle terre (di proprietà del Convento dai tempi dell’Impero Ottomano) in realtà fossero loro. Siamo quindi tornati in Convento, e qui ho ammirato in Suor Rosa il totale abbandono alla Speranza, la capacità di affidarsi nella loro difficile vita in quei luoghi con pura fede alla Madonna, che lei chiama Madonnina, avendo sempre il sorriso sulle labbra. Sottolineo che la mia non è un’esperienza dal valore universale; ci saranno altre mille storie con trame differenti e posizioni invertite, ma questo è ciò che ho vissuto io. A Natale sono tornato dalle suore, e ci hanno raccontato come dopo il 7 ottobre i coloni abbiano effettivamente preso le loro terre: l’esercito israeliano li ha in prima battuta allontanati, ma sono poi subito tornati e ormai le usano come fossero loro.

Posso dire che stando in Cisgiordania si ha la netta impressione di essere in realtà in una sorta di “colonia”: i trattati di Oslo avrebbero dovuto garantire zone via via più ampie di indipendenza ai palestinesi, ma ciò che ho visto e sentito mi testimonia che così non è.
Ho cenato a casa di una famiglia cristiana palestinese, a Beit Sahour (il Campo dei Pastori vicino a Betlemme), e ho sentito il padre di famiglia raccontarci ad esempio come sia riuscito solo una volta a portare le figlie a vedere il mare, perché attraversare quei 60 km (che noi faremmo in giornata, andata e ritorno per una gita al mare) per loro è una sfida con decine di posti di blocco, senza sapere se riusciranno mai ad arrivarci al mare, e impiegandoci comunque almeno due giorni. E per mille altri motivi è chiaro, stando in quei luoghi, che per i palestinesi la vita è una vita da colonizzati.

Posso dire che questo Natale, a Gerusalemme, ho visto la sera i familiari degli ostaggi israeliani pregare davanti alle foto dei loro parenti; e come vedere quei volti in quelle foto (spesso giovani e giovanissimi) faccia soffrire e sposti quell’ago interiore che porta spesso a parteggiare per una delle due parti.

Posso poi dire che a Gerusalemme, e poi a Betlemme, ho vissuto l’esperienza “straniante” di non trovare nessun pellegrino, proprio nei giorni tra Natale e Capodanno. E per nessuno intendo davvero nessuno: nell’intero Santo Sepolcro, varie volte, mi sono ritrovato solo io con Don Paolo, in due. Lo stesso alla Basilica della Natività. E come tutto questo, soprattutto a Betlemme che non ha altre forme di turismo, significhi mettere in ginocchio i commercianti di quei luoghi, spesso famiglie palestinesi cristiane che si sostentano solo grazie al flusso di pellegrini

Per due anni su questi temi mi sono affidato alla lezione di Don Paolo, che mi ha insegnato la “sospensione del giudizio”, volgendo l’attenzione solamente a comprendere meglio l’infinita complessità di quei luoghi e della situazione.

È sempre più difficile però per me mantenere questa sospensione: se da un lato mi confermo che scegliere una parte non è una cosa giusta, dall’altro mi chiedo come si possa essere certi che questa posizione di “sensibilità” nei confronti delle sofferenze di entrambi i popoli non rischi di trasformarsi in ignavia.

Quanto avviene a Gaza è inumano, e certo lo è stato anche il 7 ottobre. Anche fare le proporzioni tra i mali non è nello spirito della Carità, e non porta che ad alimentare il cortocircuito: cercare “ha iniziato prima uno, o l’altro”, per decidere da che parte stare, contare chi ha causato più morti è un percorso senza fine dati i millenni di storia di quelle terre. Si troverà sempre un errore commesso dall’altro prima, si troverà sempre un motivo per pensare che il male sia dell’altro: in definitiva analizzare il passato non può che alimentare le divisioni.

La strada non può essere questa, e al contempo non si può non pensare, ogni giorno, che lo Stato di Israele (non gli israeliani, e ancor meno gli ebrei) stia commettendo dei crimini atroci. Qui sì che personalmente vedo maggiori responsabilità di Israele: perché è uno Stato florido, ha una cultura millenaria della quale siamo tutti debitori, ha i mezzi economici, è uno stato occidentale. E chi ha tutto questo, e ha soprattutto nella memoria le sofferenze della Shoah, dovrebbe sapere profondamente che il male e il dolore non possono che portare ad altro male, sofferenze, e dolore. Che è una battaglia che si perde in partenza, perché nell’uccidere l’altro, stai uccidendo innegabilmente anche te stesso.
Come si vede non ho alcuna risposta a questi interrogativi, ma nel pensarci mi rispondo sempre che non può essere un caso che proprio in quella Terra ha vissuto chi ci ha insegnato che l’unica strada da percorrere è quella della Carità, che ci spinge a non cercare chi ha ragione o chi ha torto per condannare, ma solo ad amare.

E anche se so che è davvero difficile, oggi più che mai, chiedere ad un Israeliano di amare ogni singolo palestinese, e al contempo chiedere ad un palestinese di amare ogni singolo israeliano come unica strada per un futuro in quelle terre, al contempo so che a tutti noi, che abbiamo la fortuna della “distanza” da quelle sofferenze immense, è questa l’unica cosa che viene richiesta. Amare ogni palestinese e ogni israeliano, pregare per tutti loro, affidarci all’Amore, anche quando risulta difficile, anche quando il nostro istinto è quello di puntare il dito, anche quando non pensiamo di meritare questo Amore e quindi non sappiamo neanche donarlo agli altri, anche quando è dal punto di vista “umano” la strada più illogica, anche quando sembra folle, anche quando non capiamo perché mai dovremmo farlo, anche quando paradossalmente ci sembra sbagliato.

Penso che a Gesù molte volte abbiano chiesto di schierarsi contro i romani, contro le sicure nefandezze che compivano, contro i dolori che causavano al suo popolo. Non sono un biblista, ma non mi pare proprio ci sia nei vangeli neanche una sua parola contro i romani, mai un dito puntato. E se mi immergo in quel tempo, in quei luoghi, in un popolo conquistato, nei loro dolori, non penso che umanamente sia stato facile per lui non dare risposte a queste sollecitazioni, molto umane, comprensibili, di chi gli stava vicino.

Eppure non c’è stata alcuna ignavia da parte sua, la strada l’ha invece sempre indicata chiaramente, con forza: ha “semplicemente” sempre detto di amare tutti, indistintamente, con particolare attenzione per chi è più povero e chi è più in difficoltà.

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