Comunità generativa

«A peste, fame et bello libera nos, Domine».
In questa antica invocazione Romano Prodi, qualche settimana fa, ha condensato l’affanno del tempo presente: «Liberaci, Signore, dalla peste, dalla fame e dalla guerra». «Sono capitate tutte», ha soggiunto – la pandemia del Coronavirus, i cui danni sociali e psicologici sono drammaticamente presenti; la fame che, ignorata quasi del tutto dalle nazioni benestanti, attanaglia la vita del 12 per cento della popolazione mondiale; la guerra in Ucraina che, pur nella sua ferocia e gravità, è appena uno dei 169 conflitti violenti che papa Francesco chiama la “terza guerra mondiale a pezzi”.

Viviamo un tempo pieno di sfide tremende e non possiamo evadere, non possiamo fuggire. È necessario ascoltare il grido di chi soffre, lasciarci raggiungere dalle domande destabilizzanti che ci pone e aprire la mente, il cuore, le mani per condividere, sentire il dolore dell’altro e farlo nostro. E ricorrere alla fede che ci apre alla speranza, fondata nel Crocifisso Risorto, che in fondo al tunnel ci attenderà una luce e che ancora potrà nascere qualcosa di nuovo.

A ben guardare, però, sono proprio i periodi di crisi e le situazioni di precarietà l’occasione di una particolare generatività, cioè il nascere di qualcosa di nuovo, di prospettive e azioni prima impensabili, di una nuova vivacità di vita evangelica.

Ma come essere una Chiesa generativa? Possiamo rintracciare almeno tre condizioni imprescindibili.

  1. Per essere generativi occorre lasciarsi alle spalle le posizioni acquisite e spogliarsi delle proprie abitudini e sicurezze. Sta appunto in questo la chance della missione che ci domanda di levare le ancore e di camminare leggeri, senza bagaglio: porsi “in uscita” rende capaci di novità. Comporta anche dei rischi, ma molto più grande è il pericolo di sistemarsi nella prosperità e cominciare a seguire altri dèi. Occorre, quindi, il coraggio di lasciarsi denudare dalle circostanze e farsi poveri, come il Cristo in Croce. È proprio là che egli ha generato la Chiesa. 
  2. Ma c’è ancora un’altra condizione per generare: aprirsi all’altro, agli altri, nella loro diversità e alterità. Solo nell’esodo da noi stessi per incontrare l’altro può nascere qualcosa di nuovo. Anche in questo Gesù ci è maestro: da Figlio di Dio, facendosi uomo, ha compiuto l’esodo più grande di tutti i tempi e così ha inaugurato una novità assoluta: lo sposalizio della Trinità con l’umanità, e non con un’umanità perfetta e ideale, bensì da redimere da tanti guai. Quale luce e quale motivazione per ogni forma di dialogo! 
  3. Pensando all’incarnazione e alla redenzione, è indicata già una terza condizione: per generare qualcosa di “salvifico” e di veramente risolutivo non basta incontrarci, ascoltarci e accoglierci fra di noi, per quanto ciò sia necessario e importante. Ma bisogna che entri in gioco una “scintilla” superiore, occorre che trovi accoglienza e germogli in noi il “seme incorruttibile” della Parola vivente di Dio (cf. 1 Pt 1, 23). Dobbiamo ricordarcelo in questo tempo di allenamento a uno stile sinodale di Chiesa, in cui tutti siamo chiamati a discernere le vie da percorrere e i passi da fare.
    Sentiamoci allora tutti interpellati per essere davvero una comunità generativa, capace cioè di generare nuovi figli e figlie alla sequela del Vangelo di Gesù e di inaugurare un tempo nuovo di speranza e di fraternità.

don Paolo

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